La 18esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, presieduta dal vice primo ministro del Qatar, dopo due settimane di difficili negoziati, si è conclusa sabato 8 dicembre scorso con una generale insoddisfazione. L’unico risultato ottenuto è stato quello di prolungare gli accordi previsti dal protocollo di Kyoto fino al 2020. A Doha, in Qatar, i 194 Paesi che hanno partecipato al summit sui cambiamenti climatici non sono riusciti a rafforzare l’impegno per ridurre ulteriormente le emissioni di gas serra, per cui si sono impegnati solo l’Europa e qualche altro Paese, corrispondenti in totale ad una minoranza pari a circa il 15-20%. Hanno rifiutato di convenire su degli obiettivi vincolanti tutti i principali Paesi “inquinatori”: Usa, Canada, Giappone, Russia, Nuova Zelanda, Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa. Nonostante ciò, almeno sulla carta, si è trovato accordo per il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l’impegno dei paesi industrializzati di stanziare delle somme per finanziare gli interventi conseguenti. La riduzione delle immissioni di anidride carbonica per cui finora diversi paesi si sono impegnati era considerato elemento indispensabile per garantire un rientro, entro il 2020, della traiettoria di riscaldamento del pianeta che mon comportasse un innalzamento della temperatura superiore ai 2°C. I risultati attuali delle politiche salva-clima, secondo gli studi condotti, stanno invece assicurando un riscaldamento stimato almeno tra i 3.5°C e i 6°C. Secondo l’opinione di molti i negoziatori di Doha hanno fallito nel raggiungere anche le più basse aspettative sugli accordi internazionali, a causa soprattutto del veto posto da alcuni principali paesi sviluppati che hanno dimostrando ancora una volta come lo sviluppo sostenibile e responsabile non possa essere garantito dai leader politici, essendo un gravoso impegno, uno sforzo finanziario e di integrazione culturale, e non limitandosi a una banale rendicontazione del cash flow.
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