Gli Stati Uniti esportano più petrolio di quello che importano per la prima volta dal 1995, in un trend di crescita accelerato grazie alla pratica del fracking (e in generale al commercio di shale gas e tight oil) che, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) ha toccato 8 milioni di barili al giorno nel novembre scorso, il massimo mai da raggiunto da un quarto di secolo. Se il trend si confermerà nei prossimi anni, per il 2016 l’Agenzia prevede che possano diventare i primi produttori mondiali. Gli Stati Uniti sono riusciti in pochi anni a modificare il proprio bilancio energetico, riducendo drasticamente la dipendenza dall’OPEC e influenzando in maniera significativa lo scambio dei prodotti raffinati e il panorama geopolitico, che vede al contraltare un Europa ormai sempre più marginale e la crescita invece dei mercati asiatici. Da un punto di vista economico il vantaggio si è anche riflettuto nel prezzo al barile per il mercato interno, che è nettamente (oltre 15 dollari) più basso di quanto sia in Europa, come conseguenza dell’aumento delle produzioni. Sempre secondo l’AIE, si prevede che la produzione di petrolio degli Stati Uniti salirà a sfiorare quota 9 milioni di barili al giorno nel mese di dicembre 2014 e si attesterà su una media intorno agli 8,5 milioni di barili al giorno durante tutto il prossimo anno. Le importazioni, parallelamente, a dicembre del prossimo anno crolleranno a poco più di 5,5 milioni di barili, con una media sull’anno di 6,54 milioni di barili scambiati (sempre su base mensile); una produzione che, secondo le previsioni, sarà sempre superiore alle importazioni nette che erano al minimo storico nel febbraio del 1991 con poco più di 5 milioni di barili scambiati. La Casa Bianca ha fatto della “storica pietra miliare dell’indipendenza energetica” un piano che sembra quanto mai realizzabile.
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