Sotto l’egida del commissariamento, lo stabilimento dell’Ilva, seconda acciaieria più grande d’Europa, sembra ipotizzare nuovi orizzonti energetici, che permettano da un lato di salvaguardare la produttività industriale, dall’altro di ridurre drasticamente l’impatto devastante sul territorio in termini diretti e indiretti e che è soprattutto vincolato all’impiego di carbone delle cokerie e al suo ciclo di impiego. E’ IlSole24Ore a dare notizia di “verifiche” interne che starebbero già verificando la fattibilità di una conversione a metano, o meglio shale gas statunitense molto più economico, una volta che la piattaforme fosse dotata di opportuno rigassificatore, che parrebbe la panacea di tutti i mali: -60% di emissioni nocive in atmosfera, -30% di stoccaggio di cumuli di materiali che invadono le aree limitrofe, addirittura un +10% di produttività dell’altoforno. E’ chiaro che l’articolo si basa evidentemente su delle ipotesi, infatti occorre osservare che l’assorbimento di metano in alternativa al carbone, secondo i dati degli assorbimenti pubblicati nel 2007 in una relazione ambientale circa le consistenze impiantistiche dell’acciaieria, il fabbisogno in termini di metano sarebbe bel oltre il 5% delle importazioni totali su base nazionale (corrispondente a circa 200.000 TWh/anno di energia primaria), il che lascia pensare a problemi infrastrutturali e di riorganizzazione dei piani energetici, facendo pensare che quella della rigassificazione sia la reale opzione eventuale per lo stabilimento e non un’alternativa.
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